INTERVISTA A FABRIZIO GROSOLI

di Mario Tolomelli


Come e perché ha cominciato a occuparsi di documentario?

- «Mi occupo di cinema da sempre… da circa trent’anni. Ho cominciato come giornalista: facevo parte del primo nucleo della redazione di Ciak. Poi ho vissuto tutta l’esperienza di Tele+, prima come responsabile della programmazione, poi con altre qualifiche. Frequentando i festival, anche da giornalista, nel corso degli anni novanta, avevo individuato alcune figure di cineasti che mi interessavano particolarmente, ed erano proprio i cineasti che avevano l’abitudine di non distinguere troppo i confini tra documentario e fiction. Alcuni di questi autori li seguivo costantemente, e il loro lavoro mi sembrava particolarmente esemplare. Faccio un nome tra i tanti: Robert Kramer. L’occasione professionale per dedicarmi invece ai documentari è capitata quando a Tele+ nel ’97 la gestione passò nelle mani dei francesi di Canal+. Mi chiesero di occuparmi di una fascia di programmazione di documentari. Loro all’epoca intendevano per documentario in realtà il reportage. Io cercai di interpretare invece questa richiesta e mi misi da subito a programmare dei documentari d’autore creativi. Ricordo che una delle prime cose che mandai in onda fu un film di Raymond Depardon, che certamente non era un reportage classico… Quella è stata un’esperienza molto felice e  molto produttiva, perché in circa cinque o sei anni il documentario si conquistò uno spazio di palinsesto privilegiato: in prima serata, con cadenza settimanale. Questo mi permise anche di cominciare gradualmente a fare delle pre-acquisizioni, e quindi di facilitare la produzione di documentari (si trattava ovviamente di produzioni indipendenti italiane a basso costo). Quella è stata una esperienza che mi ha convinto che il documentario poteva prendere una certa direzione, e devo dire che poi negli anni successivi così è stato, nel senso che appunto alla fine degli anni novanta forse non era ancora chiaro che il cinema documentario poteva prendere lo sviluppo che poi ha preso, e mi fa piacere di avervi anche solo in minima parte contribuito, almeno per quanto riguarda la produzione italiana.»

Parlavo ieri qui a Bellaria con una ragazza di Brescia. Mi raccontava che ha “scoperto” da poco il mondo del documentario: l’anno scorso si è trovata ad assistere alle proiezioni del Festival dei Popoli, rendendosi conto dell’esistenza di documentari diversi da quelli di tipo didattico che aveva conosciuto fino ad allora…
Il documentario di creazione avrebbe chiaramente delle possibilità di sviluppo e un pubblico potenziale in Italia, che non riesce a raggiungere a causa di scelte aprioristiche che lo escludono quasi completamente dai palinsesti televisivi. Esiste di fatto un mercato, quella che in termini economici si potrebbe definire una domanda, che viene ignorata…

- «Da un punto di vista di mercato certamente non posso che osservare quanto sia singolare che le televisioni in Italia continuino a essere così poco sensibili a un tipo di “prodotto” che in tutti i paesi del mondo, in molti paesi europei in particolare, ha un pubblico, una audience, una storia, una identità. Questo è un ritardo gravissimo. La responsabilità principale di questo ritardo è della televisione pubblica. Se c’è una televisione che non ha favorito l’idea stessa del documentario è proprio la RAI, perché a partire dagli anni ’60 ha scelto una strada completamente diversa, quella del reportage, eventualmente “massacrato” all’interno dei talk-show, e questo è un ritardo che si fatica a colmare, rispetto appunto al resto dell’Europa, al resto del mondo. Quanto invece al fatto che ci sia, continui a esistere, si stia forse incrementando una produzione indipendente, che va nel senso del documentario narrativo, di creazione, questo secondo me è un dato indiscutibile, ovvio, logico. Credo che la passione che molti cineasti indipendenti hanno per il racconto del reale sia pienamente giustificata dal fatto che questo tipo di produzione adesso è possibile anche a bassissimi costi. Anche se questo può significare dei sacrifici magari personali per le singole produzioni, per i singoli cineasti, spesso però ci sono dietro delle motivazioni sufficientemente forti perché nonostante tutto delle cose si facciano. Il dato secondo me interessante è che in un anno in Italia, bene o male, si producono – è un dato difficile da quantificare perché è abbastanza sommerso – tra le duecento e le trecento opere. Ho tentato, per il premio Casa Rossa, di individuare appunto un elenco dei documentari prodotti nel corso di un anno e sono arrivato a quasi 250 titoli. Quindi è chiaro che c’è un movimento in questo senso, è chiaro che il racconto del reale, stimolato evidentemente da esempi internazionali abbastanza interessanti, si sta diffondendo, credo che sia un dato di crescita in qualche modo inevitabile.
Sul fatto che ci sia un pubblico per questo genere di film non ho alcun dubbio. I segnali ci sono e sono tanti, dai festival come il nostro, ai circuiti di sale che si vanno formando, al relativo successo di alcune iniziative editoriali in home video. C’è insomma un’attenzione e una sensibilità diffusa, al di là – oppure paradossalmente forse proprio perché – in televisione non si vedono questi film, e quindi c’è l’idea che il documentario sia oltre che un genere una forma di espressione interessante. Inoltre il documentario viene giustamente visto anche come un approfondimento del reale, uno strumento per colmare i vuoti lasciati dall’informazione di base, che è molto lacunosa e superficiale. Anche questa è una domanda che esiste, al di là dei temi, dei soggetti, degli argomenti.»

Di solito quando si parla dei problemi del documentario in Italia l’attenzione viene giustamente centrata sulla scarsità e modestia dei finanziamenti cui gli autori possono avere accesso, ed eventualmente sul fatto – altrettanto giusto – che se la tv (in particolare la RAI) riservasse più spazio al documentario potrebbe contribuire a educare il pubblico, a creare un pubblico per il documentario. Ricordo che nell’ultima parte del suo intervento nel volume curato da Marco Bertozzi, L’idea documentaria, lei parla dei limiti “linguistici” del documentario medio italiano, che oltre a soffrire della scarsità di finanziamenti, tende anche a rimanere rinchiuso in un numero limitato di tipologie o categorie. Questa considerazione immagino che derivi dal confronto con la scena del documentario internazionale: mi pare un aspetto importante, che viene raramente affrontato…

- «Innanzitutto non esistono delle strade sicure di formazione per filmmaker che vogliono fare documentario… Ci sono delle iniziative, che sono meritorie e coraggiose, per esempio al Centro Sperimentale di Cinematografia c’è un corso di documentario, ma certamente di scuole specifiche vere e proprie non ce ne sono: c’è la Zelig di Bolzano che fa un buon lavoro, ma è comunque una piccola realtà, c’è stato il tentativo quest’anno della scuola di Napoli… c’è sicuramente un problema di accesso alla formazione. Però quando ho scritto quella cosa (ormai è passato un po’ di tempo) mi riferivo proprio al fatto che c’è un po’ la tendenza, da parte dei filmmaker italiani, a rassegnarsi preventivamente, se così posso dire, all’idea che girare a basso costo significhi automaticamente girare piccole storie, e quindi limitare il campo d’intervento a priori… Posso anche dire che negli ultimissimi anni da questo punto di vista la situazione si sta un po’ modificando. Per esempio ora esistono dei lungometraggi documentari, tanto è vero che nella selezione del premio “Casa Rossa” sono quasi tutti lungometraggi. C’è in effetti uno spostamento progressivo in questa direzione, ma è vero che nella maggior parte dei casi chi si appresta a fare un film documentario lo fa pensando già a priori che non potrà andare oltre determinati orizzonti stilistici, produttivi, ma anche “ideali”. Questo lo avvertivo come un limite e credo che lo sia tuttora.»

Ho la sensazione che i problemi del documentario italiano non si trovino solo all’esterno (tv, finanziamenti), ma anche all’interno… nel senso che l’isolamento del documentario oltre che da orizzonti economici e produttivi limitati mi sembra derivare anche dal fatto che la cultura documentaria italiana va per così dire di pari passo con tutti questi limiti esterni, come se, al di là dell’aspetto economico, fosse impossibile realizzare qualcosa che non rientri nelle categorie e negli stilemi già riconosciuti in Italia. Potremmo dire che la difficoltà per chi sta in Italia ad avere accesso alla produzione documentaria europea e mondiale oltre che nuocere al pubblico nuoce alla formazione degli stessi documentaristi?

- «Certamente c’è un problema di cultura del documentario… Bisogna tener conto anche di un altro aspetto: normalmente i grandi documentari hanno tutti alla base un carattere di eccezionalità che li spinge raramente all’interno di una dimensione di mercato precisa. Sono convinto cioè che i documentari importanti di solito nascono da delle “follie” e dalla possibilità di lavorare nel tempo, cosa che pochissimi si possono permettere. In questo senso parlavo prima di limiti oggettivi “mentali”, nel senso che raramente si decide di affrontare una impresa “rischiosa”… Ad esempio, nel caso di Ferrente, al di là dei giudizi sul film (L’orchestra di piazza Vittorio, n.d.r.), comunque quello è un film che ha anni di storia dietro di sé, e questo tempo che trascorre nel film lo si vede ed è importante. Detto questo, io sono anche produttore di documentari, e quindi so benissimo cosa significa poi fare i conti con le eventuali possibilità di accesso ai finanziamenti. E’ chiaro che non abbiamo nessuno in questo momento in Italia che sia disposto a rischiare su questo tipo di film.
L’unica vera possibilità in più che si è creata negli ultimi due anni è quella di aver accesso ai finanziamenti pubblici ministeriali. Le eventuali committenze televisive invece puntano proprio all’opposto rispetto a ciò di cui stiamo parlando, cioè a prodotti che siano standardizzati sia linguisticamente che produttivamente. È un problema non solo italiano, devo dire, perché il quadro internazionale non è che sia tanto più favorevole a progetti, come dicevo prima, eccezionali per loro stessa natura. Poi magari ci sono delle realtà per noi inimmaginabili, come HBO o Sundance Channel, che si possono permettere di finanziare progetti che vanno avanti per anni…»

Io seguo da una decina d’anni la programmazione del canale franco – tedesco Arte, che ugualmente…

- «Arte purtroppo si sta progressivamente degradando, anche questo va detto…»

Però comunque...

- «…Il gap tra Arte e la televisione italiana rimane costante.»

Tra le retrospettive in programma quest’anno qui al Festival di Bellaria  ce n’è anche una dedicata a Ugo Gregoretti, i cui lavori realizzati per la RAI negli anni cinquanta testimoniano una straordinaria creatività e come lei ha affermato “appaiono innovativi ancora oggi”.

- «Il tentativo che sto facendo a Bellaria a partire dall’anno scorso è quello di riportare in superficie un pezzo straordinario di storia del cinema italiano, che è appunto la storia del documentario dal dopoguerra agli anni settanta. C’è stata una produzione ricchissima e, contrariamente alla fiction, pochissimo indagata. Per quanto riguarda Gregoretti, conversando con lui viene fuori quanto i primi anni della RAI, gli anni cinquanta, fossero un’epoca in cui, nonostante l’arretratezza culturale e tecnologica che rifletteva l’arretratezza del nostro paese, si viveva una straordinaria libertà. Nelle pieghe del sistema era possibile fare sperimentazione, come è inimmaginabile pensare che si possa fare adesso. Questo per motivi molto semplici: non c’erano così tante regole… Gregoretti lo racconta con molta chiarezza e molto humour, c’era veramente la possibilità di inventare generi, temi e strutture. Poi la televisione è diventata un’altra cosa, ma insomma… sappiamo anche perché…»

Il direttore di  Glowria.fr, videoclub a domicilio francese, sostiene in una intervista che la presenza su Internet favorisce particolarmente le produzioni indipendenti, che passano da una quota di mercato del 20% nel caso del noleggio tradizionale, al 40% nel caso del noleggio via Internet, in quanto potendo disporre di un catalogo molto più vasto la domanda si diversifica.
Cosa pensa della possibilità di scaricare documentari via Internet? Sarà uno degli scenari futuri della distribuzione?

- «Non ho alcun dubbio sul fatto che il mercato tradizionale di distribuzione sia inadeguato alla realtà attuale della produzione di documentari indipendenti, tanto è vero che ho anche scritto recentemente un piccolo saggio su questo argomento per la rivista dell’A.A.M.O.D.
Sono convintissimo che la direzione che è giusto, doveroso e inevitabile prendere sia quella che va verso un tipo di “consumo” individuale consapevole. Quindi certamente Internet è una delle strade principali da questo punto di vista. Si tratta dell’adeguamento a un’evoluzione di mercato, che è solo questione di tempo, nel senso che appunto si tratterà di capire se la strada è quella del cosiddetto video on demand,  quindi un catalogo su cui si fanno le proprie scelte, o se la strada può essere quella del piccolo palinsesto più simile a una programmazione televisiva, oppure una via di mezzo tra queste due opzioni. Però non c’è alcun dubbio che la direzione sia quella, tanto è vero che io, che in questo momento mi occupo anche di distribuzione, so che questa è già una realtà che tende a divenire sempre più importante e consistente, anche in termini reali di dimensione di mercato.»